Zero post. Zero storie. Bio minimal, magari una foto indistinta come immagine profilo. E poi silenzio. Non è un bug. È un segnale.
La nuova generazione, quella nata con lo smartphone in mano, sta cambiando le regole del gioco. Non vuole più raccontarsi pubblicamente. O meglio: vuole controllare quando, come e soprattutto a chi mostrarsi.
Se i millennial hanno costruito la propria identità online a colpi di post, filtri, selfie e caption motivazionali, oggi la Gen Z e la Gen Alpha stanno facendo l’esatto opposto. Per i millennial i social sono stati una conquista. Il primo spazio davvero personale, libero, creativo. Pubblicare significava esistere, raccontarsi, prendere posizione. L’algoritmo era un alleato inconsapevole: più postavi, più c’eri.
Oggi, invece, i social sono percepiti come uno spazio saturo, osservato, misurato, dove ogni contenuto è giudicato, archiviato, potenzialmente usato per sempre.
La nuova generazione non pubblica, ma osserva. Moltissimo. Consuma contenuti in modo veloce, selettivo, spesso anonimo, nelle chat private, nei gruppi ristretti. Il feed pubblico, invece, è diventato una sorta di vetrina che non sentono più il bisogno di riempire. Anzi, lasciarla vuota è una scelta: significa non doversi giustificare, non doversi esibire, non doversi raccontare a chiunque.
I millennial hanno vissuto l’epoca dell’innocenza digitale. Hanno postato senza pensare a reputazione, algoritmo, e oggi pagano quello stesso archivio pubblico fatto di foto imbarazzanti, frasi ingenue, momenti che non vorrebbero più vedere online. Sarebbe un errore pensare che i giovani si stiano allontanando dal digitale. La verità è opposta: lo stanno usando in modo più strategico, più emotivo, più protetto. Non vogliono più “piacere a tutti”. Vogliono essere compresi da pochi.
Se i millennial cercavano validazione pubblica, oggi si cerca intimità digitale. Se prima contavano like, oggi contano risposte private. Se prima l’obiettivo era essere visibili, oggi l’obiettivo è essere al sicuro.