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Tumore alla prostata, all’Oncologico di Bari testato un nuovo metodo per individuare la migliore terapia

Pubblicato da: redazione | Mer, 28 Giugno 2017 - 18:30
L'istituto Oncologico di Bari

Attraverso lo studio di una proteina si potrà individuare la migliore terapia personalizzata per i pazienti affetti da tumore alla prostata. L’importante scoperta scientifica porta anche la firma dell’Irccs Giovanni Paolo II, ma di cosa si tratta? I pazienti con un cancro alla prostata che presenta la proteina AR-V7 “troncata” – rintracciabile con un esame del sangue – sembrano non rispondere a due farmaci di ampio utilizzo, l’enzalutamide e l’abiraterone.

Il cancro alla prostata si serve degli ormoni androgeni per crescere. L’enzalutamide e l’abiraterone colpiscono gli androgeni e bloccano la capacità dei recettori di attivare le cellule tumorali prostatiche. L’AR-V7 è una forma troncata del recettore, cui manca proprio la parte che rappresenta dei due farmaci.

Grazie a questa scoperta sarà quindi possibile capire qual è la migliore terapia per i pazienti. L’obiettivo è cucire addosso alla persona la migliore terapia possibile. Non va dimenticato che la principale causa di morte per tumore nella popolazione maschile è proprio il cancro alla prostata, che colpisce un uomo su 16 nel nostro Paese.

“Recentemente sono stati fatti studi per capire sia i meccanismi di tale resistenza sia se esistono bio-marcatori che permettano di predire la prognosi dopo tali trattamenti- spiega la dottoressa Stefania Tommasi dell’Irccs barese – un lavoro pubblicato un paio di mesi fa ha messo in evidenza come una variante di splicing del recettore androgenico (cioè un messaggero più breve prodotto dal gene androgenico) chiamata AR-V7, evidenziata nelle cellule tumorali circolanti dei pazienti con carcinoma prostatico, sia legata a un andamento prognostico sfavorevole della malattia”.

È all’interno di questa cornice che il “Giovanni Paolo II” si fa protagonista, provando a mandare fuori dalla scena il tumore maligno più frequente nel sesso maschile. “Nel nostro Istituto abbiamo iniziato da qualche mese uno studio simile dal punto di vista dell’approccio molecolare a quello pubblicato (a nostra conoscenza il secondo a livello internazionale) che dosa la forma AR-V7 in pazienti che hanno già iniziato un trattamento con farmaci anti-androgenici e sono andati in progressione e la mette in relazione con la risposta e il tempo di risposta a tale terapia. I dati sono preliminari (ad oggi 20 casi) ma i risultati sembrano sovrapponibili a quelli pubblicati”, aggiunge Tommasi.

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