Per far bene in Serie B è essenziale la compattezza del gruppo. È una verità semplice, quasi banale, ma che troppe volte viene dimenticata. Lo abbiamo visto nei vari Bari vincenti del passato, nelle stagioni in cui lo spogliatoio era una cosa sola, in cui ogni giocatore si sentiva parte di un progetto, non un corpo estraneo. In Serie B, più che la qualità del singolo, contano la coesione, la mentalità e la capacità di soffrire insieme.
Ma se ogni anno si stravolge la rosa, si corre un grande rischio: alle prime difficoltà, la squadra va nel pallone e non riesce a reagire. È quello che sta accadendo oggi. Il Bari, che avrebbe dovuto capitalizzare la discreta base lasciata nell’ultima stagione, è ripartito ancora una volta da zero. Nuovi giocatori, nuovo allenatore, nuove idee — per ora solo sulla carta. Ma la realtà, cruda e impietosa, dice altro: una squadra smarrita, senza identità, incapace di reagire quando le cose si mettono male.
Se a questo si aggiungono l’evidente inadeguatezza del tecnico, l’assenza totale della proprietà e una dirigenza smarrita, il quadro è completo. È il classico mix esplosivo che porta una piazza passionale come Bari alla frustrazione. Una piazza che non si accontenta, che chiede rispetto e progettualità, e che oggi si ritrova con tante domande e poche risposte.
Tuttavia, l’impressione è che i singoli giocatori giunti quest’anno — sottolineiamo singoli — non siano assolutamente da bassifondi della classifica di Serie B. Parliamo di profili discreti, con esperienza, alcuni anche di categoria superiore. Il problema è che, inseriti tutti insieme in un contesto fragile, nuovo e confuso, stanno rendendo molto meno del loro potenziale. Perché nel calcio non basta la somma delle individualità: serve una struttura, un’idea, una guida. E oggi il Bari sembra non avere nulla di tutto ciò.
Ovviamente non si possono mandare a casa tutti i calciatori e, nel calcio, si sa, il primo a pagare è sempre l’allenatore. E un tecnico che vince per puro caso una sola partita in otto gare di campionato va esonerato senza se e senza ma. La legge del calcio è spietata, ma logica. Tuttavia, attenzione: le colpe non sono solo di Caserta, che pure si sta dimostrando poco adatto a una piazza come Bari, sia dal punto di vista tecnico che caratteriale. Il suo Bari non ha un’identità, non ha una trama di gioco riconoscibile e, quando va sotto, si scioglie come neve al sole. Ma il problema nasce prima di lui.
Le colpe maggiori, come già detto, sono a monte: una società che vive alla giornata e non pianifica. Non basta dire di voler costruire: bisogna dimostrarlo con i fatti, con una visione, con una linea tecnica coerente. E poi ci sono i due direttori sportivi, Magalini e Di Cesare, che, pur avendo fatto un buon lavoro in fase di calciomercato con pochissime risorse economiche, si stanno rivelando poco determinati e troppo yes men. Anche qui, per fare i direttori sportivi a Bari occorrono carattere e personalità. Questa è una piazza che pretende interlocutori forti, capaci di incidere, non figure di contorno o figuranti.
E quindi, in mancanza di esoneri o dimissioni — e qui va detto: chi rinuncerebbe a un lauto stipendio di questi tempi? — cosa fa la società? Decide di portare la squadra in ritiro. Una mossa che difficilmente potrà portare frutti concreti, data la situazione. Sicuramente, andando a Castel di Sangro, Pucino e compagni non dovranno affrontare il malumore dei tifosi, ma la verità è che i gruppi squadra si costruiscono negli anni, non in poche settimane di isolamento. Il ritiro può servire a ricompattare momentaneamente, ma non a colmare i vuoti di identità e di progetto. È un cerotto su una ferita profonda.
Insomma, l’unica strada per evitare brutte sorprese sarebbe un reset generale della dirigenza e dell’allenatore. Un segnale forte, chiaro, che dica: “Abbiamo capito gli errori, ricominciamo”. Ma, realisticamente, è difficile che accada. Troppo comodo restare in silenzio, troppo rischioso ammettere le proprie responsabilità.
Per fortuna dei biancorossi, siamo ancora a fine ottobre e il campionato di Serie B è lungo: concede a tutti di raddrizzare la rotta. Ma serve una scossa vera, non di facciata. Serve che qualcuno, finalmente, si assuma la responsabilità di dire la verità: che questo Bari non può più permettersi di vivere di improvvisazione, che i tifosi meritano rispetto e che la storia di questa città non può essere riscritta da chi la considera solo una voce di bilancio.
Perché Bari non è una semplice squadra di provincia. È una città che nel calcio ha sempre cercato un motivo d’orgoglio, un riscatto collettivo. E oggi più che mai, quel riscatto passa da una parola semplice ma dimenticata: programmazione.
Foto Ssc Bari