L’intelligenza artificiale non è più soltanto una compagna silenziosa nelle nostre case o negli smartphone. Oggi entra anche nelle palestre, negli stadi e nei campi sportivi, ridefinendo il modo in cui ci alleniamo, miglioriamo e impariamo.
Piattaforme come Fitbod, Freeletics AI Coach o l’ultimo aggiornamento di Apple Fitness+ promettono allenamenti personalizzati, modellati sui dati biometrici e sul livello di affaticamento.
È affascinante: lo smartphone suggerisce quando fare stretching o come migliorare la postura.
Ma c’è un lato che i numeri non raccontano. L’AI può dirci come muoverci, ma non perché dovremmo farlo. Non sa leggere la frustrazione di una giornata pesante, né l’entusiasmo di un progresso dopo settimane di impegno.
Può quindi davvero sostituire un istruttore “umano”?
La differenza tra un allenatore e un assistente digitale: il primo ti legge, il secondo ti misura. Negli Stati Uniti, sistemi come Tonal e Tempo Move hanno introdotto sensori 3D che correggono in tempo reale la postura durante gli esercizi. Funziona, è preciso ed è quasi inquietante nella sua efficienza.
Ma nessun algoritmo sa capire il momento esatto in cui dire “per oggi basta così” oppure “vai ancora un po’”. E forse la differenza è tutta lì. I dati servono ai coach per definire strategie, tempi di reazione, schemi di gioco. Ma, quando un atleta perde fiducia o grinta, non è un grafico a farlo reagire: è una voce, un gesto, uno sguardo.
Forse l’obiettivo non è lasciare che la tecnologia sostituisca il maestro, ma accettare che lo amplifichi. L’allenatore può usare i dati dell’AI per capire meglio il corpo del suo atleta, o dove lavorare sulle carenze oggettive.
Il valore dell’esperienza, dell’intuizione e del contatto umano rimangono certamente insostituibili!