La tua prossima canzone preferita potrebbe non essere scritta o cantata da un vero autore, ma semplicemente da modelli di intelligenza artificiale, completi di immagine, biografia e fanbase. Il fenomeno non è più teoria: è fatto, tangibile, misurabile.
Prendiamo il caso che ha fatto più rumore: Breaking Rust, un “outlaw” country creato a tavolino da algoritmi e marketing digitale, il cui singolo “Walk My Walk” ha scalato le classifiche e totalizzato milioni di ascolti in poche settimane. Testate internazionali riportano cifre oltre 3 milioni di stream su Spotify in meno di un mese.
Perché succede? Il meccanismo è un cocktail esplosivo di AI generativa (voce, testi, arrangiamenti), distribuzione digitale efficiente, e algoritmi che premiano la ripetizione e il consumo rapido. In pratica: se un brano “suona” come il genere che la gente ascolta e lo promuovi nei canali giusti, l’algoritmo lo moltiplica.
Alcuni “artisti IA” vantano oltre 2 milioni di ascoltatori mensili nelle loro pagine profilo, secondo ricostruzioni giornalistiche: un livello di popolarità non da poco che genera introiti e visibilità.
Sulla questione, Spotify ha segnalato e rimosso decine di milioni di tracce spam e false nell’ultimo anno, perché la generazione di massa di contenuti via AI ha inondato le piattaforme. In un solo anno la cifra citata è di decine di milioni di tracce rimosse.
Ad oggi potremmo affermare che una larghissima maggioranza di ascoltatori fatica a distinguere musica generata dall’AI da musica umana. È il paradosso: la tecnologia imita talmente bene lo stile umano da rendere difficile, per l’orecchio medio, il discrimine.
L’esistenza di artisti generati dall’AI non è solo un fenomeno curioso: rappresenta una seria minaccia per i musicisti reali e l’economia della musica. Questo perché la musica AI, prodotta a costi quasi nulli e distribuita in massa, tende a saturare le piattaforme, riducendo visibilità e compensi per chi fa musica con impegno, creatività e diritti regolari.