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Crisi economica e bullismo, quando una telefonata può salvare una vita. Il progetto Momo: “Qui per ascoltare i silenzi”

Pubblicato da: Samantha Dell'Edera | Ven, 1 Dicembre 2017 - 13:30

Il numero è 324 5538188. Un numero importante, che come redazione di Borderline24 vogliamo che entri nelle case dei baresi e nei palazzi delle istituzioni. Si tratta di un numero al quale tutti possono rivolgersi in caso di disagio psichico: ragazzi, anziani, professionisti che vedono la loro vita tutta nera e che pensano che l’unica soluzione sia suicidarsi. Dall’altro lato del telefono ci sarà una voce amica, qualcuno pronto ad ascoltare. Abbiamo chiesto informazioni sul progetto che si chiama “Momo” alla dottoressa Monica Guglielmi,  psicoterapeuta che collabora sin dall’inizio insieme ad una squadra di trenta volontari guidata dalla dottoressa Rosa Pinto (alla guida anche del consultorio diocesano).

Dottoressa Guglielmi, ci parli del progetto Momo

“Momo nasce sei anni fa. Si tratta di un servizio che mette a disposizione una linea attiva 24 ore su 24, sette giorni su sette. Abbiamo una trentina di volontari che vengono formati sia in maniera teorica che pratica. Perché si tratta di telefonate molto delicate: è fondamentale capire davvero cosa succede dall’altro capo del telefono, nei respiri, nei silenzi. Insegniamo ad allenare le orecchie”.

Chi sono i volontari?

“Universitari, professionisti, docenti, insegnanti, anche persone in pensione”.

Quante telefonate ricevete in media al giorno?

“Il numero varia molto, da due a dieci. Dipende. Ma non ci chiamano solo persone dalla Puglia, anche dall’Italia e alcune volte da italiani all’estero”.

Chi vi telefona?

“Alla base di tutto parliamo di una linea di prevenzione al suicidio, diventata una linea di prevenzione psico sociale. Ci contattano persone molto sole, che vivono in un isolamento sociale al dispetto di quello che può sembrare in apparenza. Noi garantiamo l’anonimato, che consente quindi di potersi raccontare, di parlare in libertà”.

Quali sono le problematiche che vengono presentate? 

“Sono soprattutto quelle legate alla difficoltà economiche. In alcuni casi si tratta di patologie croniche: queste persone cerchiamo di metterle in contatto con strutture ad hoc. Il nostro obiettivo è di aiutare non di mettere confusione tra le varie linee di aiuto che i territori offrono. Noi inoltre abbiamo attivato un centro di ascolto con un’assistenza gratuita di tre sedute nel consultorio diocesano”.

Vi siete mai trovati a dover gestire un possibile suicida?

“Si. Quando chiamano queste persone vedono tutto buio. Noi cerchiamo di dare un punto di vista nuovo, perché in quei momenti queste persone non riescono a vedere oltre il buio”.

E i ragazzi?

“Sono varie le telefonate anche dei più giovani.  Sicuramente stiamo cercando di lavorare anche entrando nelle scuole. Ma stiamo avendo tante difficoltà. Abbiamo provato più volte ad entrare negli istituti, per parlare di prevenzione al suicidio. Ma gli adulti hanno più paura dei ragazzi ad affrontare questa parola. Eppure bisogna parlare, di cyber bullismo, di prevenzione. Tutto è fondamentale. Perché poi quando succedono delle tragedie, siamo davvero tutti responsabili. I genitori non solo gli unici, c’è la scuola, ci sono gli amici. Tutti”.

Come andate avanti dal punto di vista “economico”?

“Si tratta di un progetto completamente autofinanziato. Perché non sono stati concessi finanziamenti pubblici. Siamo volontari che hanno investito i loro soldi per gli altri. Siamo gli unici a portare avanti questo progetto a Bari, nato molti anni fa in piena crisi economica, quando gli imprenditori si suicidavano quasi ogni giorno”.

Perché il suicidio fa paura, anche solo a parlarne?

“Il tabù più grande della nostra vita è la morte. La morte fa paura. Affrontando il tema della morte, si affronta più da vicino quello della vita. Noi cerchiamo di fare capire ai ragazzi che non siamo in un videogioco dove dopo una vita ce n’è un’altra.  Parlare di morte non è parlare della fine, ma è parlare della vita. La cosa che manca in questo momento storico è lo spazio di condivisione negli adolescenti. Non hanno spazi. Hanno vite riempite e non piene. E ripeto: in questo le responsabilità dobbiamo prendercele tutti, tutti dobbiamo fare un esame di coscienza”.

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