Viviamo in un mondo dove la connessione è diventata la nostra normalità.
Controlliamo il telefono prima ancora di alzarci dal letto, rispondiamo a messaggi durante la pausa pranzo e chiudiamo la giornata davanti a uno schermo.
Lo chiamano “digital social anxiety”. Diversi studi, tra cui uno pubblicato sull’International Journal of Environmental Research and Public Health nel 2023, hanno evidenziato come l’uso costante di strumenti tecnologici e social media alimenti una forma di ansia legata al confronto, alla prestazione e alla paura di essere esclusi.
Scorriamo i feed per informarci o distrarci, ma finiamo per confrontarci. “Sto facendo abbastanza? Perché la mia vita non sembra mai perfetta come quella che vedo online?”.
Quella che dovrebbe essere una finestra sul mondo diventa spesso uno specchio che amplifica insicurezze.
E non succede solo nella sfera personale. Anche sul lavoro la tecnologia, nata per semplificare, ha finito per rendere più difficile staccare davvero. Chat aziendali, mail a tutte le ore, riunioni che si moltiplicano come notifiche: essere reperibili è diventato sinonimo essere efficienti, ma non è così. La reperibilità costante aumenta i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, riducendo la qualità del riposo e la capacità di concentrazione.
La tecnologia ci tiene sempre accesi e questo, a lungo andare, logora.
Non sorprende quindi che molti parlino di burnout digitale: una condizione in cui il bisogno di essere sempre connessi si trasforma in esaurimento mentale, perdita di motivazione e difficoltà relazionali.
Ma a tutto questo una via d’uscita c’è. Sempre più persone e aziende stanno riscoprendo il valore della disconnessione consapevole: tempi di pausa dai social, “no email” dopo una certa ora, giornate di lavoro offline, da dedicare a sé stessi o a chi si ama.
Forse, quindi, non è la tecnologia a essere il problema, ma il modo in cui la viviamo.
Dovremmo imparare a usarla senza lasciarci usare.