Sembra la trama di un film di fantascienza.
Ma lo ha detto Ray Kurzweil, uno dei futurologi più noti al mondo, ex ingegnere di Google e mente brillante della Silicon Valley: entro il 2030, l’essere umano potrebbe raggiungere l’immortalità.
Non con pozioni magiche. Non con criogenia. Ma con la nanotecnologia.
Ma cosa significa “immortalità”?
Kurzweil non parla di vivere per sempre in senso assoluto, ma di interrompere il processo di invecchiamento e rigenerare costantemente il nostro corpo, allungando la vita in modo radicale, grazie a nanobot, minuscoli robot programmati per viaggiare nel nostro corpo.
Cellula dopo cellula, correggerebbero danni, malattie, mutazioni genetiche, riparerebbero tessuti, ringiovanirebbero organi.
In pratica: una manutenzione continua del corpo umano.
I nanobot non verrebbero impiantati chirurgicamente, ma sarebbero iniettati nel corpo, esattamente come un vaccino o una flebo.
Una volta nel flusso sanguigno, viaggerebbero autonomamente grazie a un sistema di navigazione programmato, andando a “lavorare” in modo preciso dove ce n’è bisogno. Agendo come una sorta di difesa biologica super-intelligente, i nanobot riconoscerebbero ed eliminerebbero virus, cellule cancerogene e infiammazioni ancor prima che diventino problematiche.
Sono programmabili, reversibili e sostituibili. Quando “scarichi”, verrebbero eliminati dal corpo o ricaricati tramite nuovi cicli di iniezione.
La notizia è affascinante, ma porta con sé interrogativi enormi.
Come cambierebbe la società, se smettessimo di morire? Chi avrebbe accesso a questa tecnologia? Tutti o solo pochi?
Forse siamo alla soglia di una nuova era. Non più solo umani. Non ancora macchine.