Niente rabbia urlata, niente euforia a tutti i costi. Se c’è un suono che definisce la Generazione Z, è quello della malinconia.
Una tristezza quotidiana, sottile, che si fa spazio tra una traccia e l’altra delle playlist da milioni di ascolti. È la voce lenta di Billie Eilish, i testi di Gracie Abrams, la malinconia di Phoebe Bridgers.
In Italia, le parole sospese di Ariete o la malinconia disillusa di Tananai.
Tutti diversi, tutti con un linguaggio emotivo condiviso: raccontare la fragilità senza paura o quasi.
La Gen Z sembra avere un rapporto più trasparente con la propria emotività. È cresciuta in un’epoca instabile, tra pandemia, crisi climatica, ansia sociale, precarietà economica e minacce di guerra, e ha fatto della vulnerabilità non un difetto, ma un’identità.
Le playlist su Spotify diventano confessioni collettive: “songs that feel like crying on the train”, “soft sad girl hours”, “for overthinkers”.
È una sorta di cambiamento culturale. Dove una volta la musica era evasione o protesta, oggi è spazio di ascolto e riconoscimento. I brani non promettono una via d’uscita, ma un luogo in cui fermarsi e soffermarsi. Non servono per dimenticare, ma per sentirsi meno soli e forse più compresi.
Anche l’esperienza live si è trasformata. Meno show spettacolari, più momenti raccolti, quasi intimi. Basti pensare a tutti i live in cui sono vietati i telefoni. I concerti diventano quindi spazi emotivi condivisi: si canta, sì, ma si piange anche, e lo si fa senza vergogna e con un silenzioso “mi sento così anche io”, mormorato nella folla.
Alcuni parlano di tendenza, altri di una forma di disagio. Ma la verità è che forse questa malinconia racconta di una generazione che non ha trovato risposte nei modelli precedenti, che rifiuta l’ottimismo forzato e il mito della performance, e che cerca invece connessioni vere, sincere.
In un mondo che impone di essere sempre all’altezza, sempre felici, sempre produttivi, questa musica rappresenta una pausa. Un momento per dire “non sto bene, ma sto qui”, e forse non sono solo.