Era il 9 maggio 1978. L’orologio aveva da poco segnato le 13.15. In una Renault 4 rossa parcheggiata contromano in via Caetani c’era il corpo senza vita dello statista pugliese Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo dalle Brigate Rosse in via Fani. In un punto “simbolico” nel cuore della vecchia capitale – ad un passo da via delle Botteghe Oscure (dove c’era la sede del Pci) e non lontano da piazza del Gesù (dove c’era quella della Dc) – fu scritta una delle pagine più buie e drammatiche della storia italiana.
In una coperta di lana color cammello con un bordo di raso era avvolto il corpo del politico di Maglie, trucidato con almeno undici colpi d’arma da fuoco, una mitraglietta Skorpion. Indossava lo stesso abito blu che aveva il giorno del rapimento, con la camicia bianca a righine e la cravatta ben annodata. L’ultimo drammatico messaggio delle Br, il comunicato numero 9 che aveva condannato il Presidente, aveva cancellato le speranze di poterlo salvare. La prossima mossa dei terroristi sarebbe stata l’ultima. Fu così.
Alle 12.30 le Brigate Rosse avevano telefonato al professor Franco Tritto, collaboratore e amico dello statista, per “rispettare” le ultime volontà dell’onorevole che, probabilmente, aveva chiesto ai suoi assassini un ultimo gesto di ‘pietà’: “adempiamo alle ultime volontà del Presidente comunicando alla famiglia dove potrà trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro” – disse Valerio Morucci , indicando la Renault e i primi numeri della targa, parcheggiata nella seconda traversa a destra di via delle Botteghe Oscure. La famiglia Moro chiese il silenzio che rifiutò cerimonie pubbliche, discorsi di saluto. “La famiglia – scrissero – si chiude nel silenzio e chiede silenzio. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.