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Cori e striscioni da stadio: limiti e possibilità

Pubblicato da: avv. Valentina Porzia | Mer, 27 Settembre 2017 - 11:00

Negli ultimi anni, sono sempre più frequenti gli episodi di violenza verbale negli stadi. Capita, però con troppa facilità, che si punti il dito contro striscioni e cori perché considerati offensivi senza considerare i vari livelli di gravità dell’offesa. I recenti fatti accaduti allo stadio Olimpico finiti al centro della cronaca sportiva sono solo gli ultimi delle tante circostanze che hanno visto i tifosi assumere comportamenti non considerati idonei e conformi allo spirito sportivo.

Difficile dimenticare gli striscioni allo Juventus Stadium durante il derby con il Torino del 2014,  quando i bianconeri hanno esposto la scritta “Solo uno schianto”, con il disegno di un aereo che si infrange contro una collina. In quell’occasione, la Questura torinese aveva imposto ai responsabili un Daspo (Divieto di Accesso alle manifestazioni sportive) di due anni. Gli stessi tifosi, inoltre, sono stati indagati dalla Procura per aver violato la legge n.41 del 2007 che reprime le manifestazioni di violenza durante le partite di calcio. La citata norma infatti vieta di introdurre ed esporre striscioni e cartelli che incitano alla violenza o che contengono ingiurie o minacce.

In linea con questi divieti, c’è l’obbligo di prevedere che le coreografie siano autorizzate, ovvero conformi a quelle autorizzate dal Gruppo Operativo per la Sicurezza (GOS) su richiesta della Società Sportiva. Oltre gli striscioni, spesso i sostenitori dei club si ritrovano a cantare cori che a volte assumono caratteri violenti e discriminatori e che vanno oltre il supporto alla prestazione della squadra. I frequentatori degli stadi, o coloro che guardano le partite in Tv, conoscono bene il coro di discriminazione: “O Vesuvio lavali col fuoco” o “Noi non siamo napoletani”, cantati contro i tifosi napoletani. Si tratta di casi che riportano caratteristiche differenti e che come tali dovrebbero essere sanzionati diversamente. La cosa, vista la nuova regolamentazione voluta da Tavecchio e con il supporto di chi conosce bene i regolamenti sportivi e le loro possibili interpretazioni , è diventata di più semplice verifica e applicazione. Infatti, con la  citata riforma, pubblicata sul C.U. n. 58/A del 18 agosto 2014, è stata finalmente eliminata la parola “territoriale” che rappresenta uno dei motivi di discriminazione insieme all’etnia. A bene guardare, il comma 1 del citato art. 11, titolato “Responsabilità per comportamenti discriminatori”, stabilisce che “costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori”. Dall’interpretazione della predetta norma dipendono varie forme di responsabilità che tengono conto dell’autore della violazione, ovvero che si tratti di calciatore, dirigente, club o sostenitori. Qualora i protagonisti dei comportamenti discriminatori siano i calciatori, la sanzione minima consiste nella squalifica per circa dieci giornate e nella previsione dell’ammenda quando si tratti di atleti professionisti. Se i contravventori sono dirigenti, la giustizia sportiva prevede l’inibizione.

Riportando l’attenzione su quanto accade negli stadi e sugli spalti vedremo che la società risponde dei fatti accaduti durante la competizione e quindi anche degli eventuali comportamenti dei supporters. Nel caso si attuino atteggiamenti discriminatori, quindi, il club dovrà risponderne ed essere sanzionato. Per la società si prevede la sanzione minima di chiusura delle curve ove si sono verificate le condotte contrarie al disposto del codice di giustizia sportiva e si può arrivare alla squalifica del campo o alla perdita della gara, con penalizzazione di punti in classifica. Nel caso di discriminazione territoriale, concetto non è ben definito nel Codice di Giustizia Sportiva perchè abrogata, la disciplina è data dal solo art. 12, comma 3, del Codice di Giustizia Sportiva, secondo cui le società “sono altresì responsabili per cori, grida e ogni altra manifestazione oscena, oltraggiosa, minacciosa o incitante alla violenza o che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di origine territoriale”. Ne consegue che l’insulto per motivi territoriali è riconducibile nella sfera delle condotte violente, piuttosto che di quelle discriminatorie.

Orbene, un’espressione consistente in un insulto per motivi di origine etnica è qualificabile come ‘discriminatoria’, con applicazione delle relative sanzioni di cui all’art. 11 del Codice di Giustizia Sportiva. Al contrario, qualora il motivo dell’offesa è l’origine territoriale si devono effettuare delle distinzioni che il più delle volte portano, come già anticipato, a sanzioni previste per le condotte violente.

Per informazioni e approfondimenti è possibile contattare l’avvocato al seguente indirizzo avvocato@valentinaporzia.com

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