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La giornalista Giorgio: “La politica non tutela i talenti italiani”

Pubblicato da: Michele De Feudis | Mer, 22 Marzo 2023 - 09:15
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“La fuga di cervelli dall’Italia è un problema molto serio e concreto, non «una retorica trita e ritrita»come dice Renzi. Nel campo della ricerca invece perdiamo molti più talenti di quanti non ne riusciamo ad attirare e la politica, finora, non ha fatto granché”: questo è il quadro sul tema tracciato da Gaia Giorgio, giornalista barese a Bruxelles, collaboratrice del Sole 24 Ore su temi di risparmio e coautrice del programma I Tartassati (Reteconomy e TgCom), trasmissione televisiva dedicata a fisco ed economia. In passato ha lavorato per ItaliaOggi, Reuters, Finanza & mercati e Borsa & Finanza. Ha lasciato in un cassetto la laurea in giurisprudenza conseguita nell’Università di Bari per cominciare a scrivere di musica e di cinema, prima di passare a occuparsi di economia e finanza.

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Gaia Giorgio, come le sembra il mondo del lavoro italiano da Bruxelles?

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“Premetto che ho lasciato l’Italia appena qualche mese fa e continuo a lavorare per testate italiane, quindi la mia visione del mercato del lavoro italiano non è esattamente quella di una outsider. In ogni caso, penso che il panorama in Italia sia piuttosto sconfortante: anche se la decontribuzione ha aiutato a far ripartire l’occupazione parliamo comunque di un mondo a due velocità, in cui c’è una fetta di lavoratori con remunerazioni e protezioni elevate, e una fetta di lavoratori meno protetti e pagati peggio. È un mercato difficile sia per i giovani sia per chi perde il lavoro in età avanzata e deve rientrare in un mondo diverso rispetto a quello in cui ha iniziato la propria carriera. Inoltre penso ci siano ancora molte aree poco meritocratiche, in cui un cognome e una rete di conoscenze valgono più delle competenze, e anche alcune in cui resiste un residuo di cultura maschilista – a volte nascosto, perfino inconscio – che rende più complicato per le donne riuscire a far carriera. L’Ocse ha rilevato che le donne italiane partecipano meno al mercato del lavoro e che la qualità del loro lavoro è più bassa – in temrini di salari e qualità dell’ambiente professionale – rispetto a quella degli uomini”.

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Le polemiche sulla fuga di cervelli?

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“È un problema molto serio e concreto e non ho apprezzato le parole del premier Renzi che giorni fa ha liquidato il tema definendolo «una retorica trita e ritrita». Sarebbe retorica se tutti i cervelli in fuga poi rientrassero in Italia per mettere al servizio del Paese ciò che hanno appreso fuori dai confini nazionali, o se al gran numero di giovani laureati e dottorandi che vanno all’estero corrispondesse un numero analogo di cervelli esteri attirati dalle opportunità di lavoro e specializzazione in Italia, ma sappiamo che non è così. Nel campo della ricerca invece perdiamo molti più talenti di quanti non ne riusciamo ad attirare e, a parte la famosa legge sul Controesodo che tentava di arginare il fenomeno con la defiscalizzazione per chi sceglie di rientrare in Italia, la politica non ha fatto granché: secondo l’ultimo Country report Ue sull’Italia la spesa pubblica in ricerca e sviluppo è scesa dall’1,32% del Pil nel 2007 allo 0,99% nel 2014. E gli investimenti privati sono ben al di sotto della media europea. Ma un Paese che non sa trattenere i propri talenti migliori è un Paese che abdica al progresso”.

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Troppi slogan della politica su occupazione e impiego giovanile?

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“Direi di sì. Gli slogan sono la scorciatoia usata dalla politica per fare breccia tra gli elettori meno attenti, e ovviamente prendono di mira soprattutto i temi più sentiti dalla popolazione, tra cui appunto il lavoro, l’occupazione, le opportunità per i giovani. È fisiologico che sia fiorita una certa narrativa sul tema, che impegna tutte le parti politiche: l’ottimismo del governo nell’interpretazione di dati non sempre così brillanti, le filippiche urlate da parte delle opposizioni. Al di là degli slogan, però va detto che almeno una riforma del mercato del lavoro è stata fatta, anche se è presto per dire quanto sarà efficace”.

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Chi le è apparso, tra i politici, più concreto nell’interpretare il disagio di una generazione di trenta-quarantenni corrosi dalla precarietà?

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“Non me la sento di fare nomi, sicuramente i politici anagraficamente più govani sono quelli che appaiono più impegnati sul tema ma in generale il livello del dibattito non mi sembra eccezionale. Il punto essenziale non è quanto gli esponenti politici di oggi siano in grado di interpretare il disagio di una generazione, ma piuttosto quanto quelli di ieri hanno fatto per creare le condizioni di questo disagio. Il sistema è stato gestito per decenni come una sorta di «schema Ponzi», quel genere di truffa finanziaria che appioppa il danno economico a quelli che hanno aderito per ultimi: i problemi non sono mai stati risolti, sono stati solo rimandati, in modo che fossero altri a gestirne le imbarazzanti conseguenze, le risorse sono state sprecate senza pensare al peso per le generazioni future. Per esempio: dopo l’ingresso nell’euro la spesa per interessi è crollata, e ci sarebbero stati i margini per l’abbattimento del debito pubblico, che avrebbe permesso di liberare risorse da investire in welfare e defiscalizzazione del lavoro. Ma non è stato fatto”.

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Meglio Bari, Milano o Bruxelles per lavorare nel giornalismo?

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“È difficile per me fare un paragone: a Bari ho lavorato nel giornalismo brevemente quando ero ancora all’università, mentre sono arrivata da poco a Bruxelles, dove lavoro per testate italiane. In generale, in questo momento lavorare nel giornalismo è difficile ovunque, perché le dinamiche in corso nel settore hanno fatto saltare vecchi equilibri, vecchie regole e modelli di business. Quindi il luogo migliore in cui lavorare è quello in cui ci siano iniziative in cui si sperimentano nuove formule per fare un giornalismo innovativo, data-driven, autorevole, con modelli differenti per far quadrare i conti. In Italia purtroppo spesso si è reagito alla crisi semplicemente tagliando i costi, senza elaborare dele nuove strategie adatte alle attuali sfide della professione”.

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La sua esperienza professionale più appagante?

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“Ho amato tutti i posti in cui ho lavorato, per ragioni diverse, ma di sicuro l’esperienza più appagante è stata quella da reporter finanziaria impegnata a scovare notizie e a trovare incongruenze nei bilanci. Un lavoro complicato, perché nella finanza è più difficile conquistare la fiducia delle fonti di quanto non avvenga per altri settori, come la politica, e sicuramente molto appagante, soprattutto quando siamo riusciti a mettere in guardia i risparmiatori da situazioni insidiose”.

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Sarebbe riproponibile a Bari o in Puglia?

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“La capitale della finanza è Milano quindi sarebbe difficile, per una questione di lontananza delle fonti e in generale di interesse sulla materia, che potrebbe essere poco appetibile per le testate pugliesi. Ma sarebbe sicuramente riproponibile nelle circostanze giuste, lavorando con capiredattori e direttori disponibili a dare ai giornalisti il tempo di rincorrere e conquistare la fiducia delle fonti, verificare le notizie, e soprattutto a lasciare ai propri reporter la libertà di scrivere anche notizie che possono dare fastidio ai potenti di turno”.

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